Il caso Ilaria Alpi «Ibtisam» è la traslitterazione della parola araba che significa sorriso. La scelta del titolo nasce dal desiderio di fare un omaggio a Ilaria Alpi, inviata del Tg3, che amava il mondo arabo. Ilaria che tutti ricordano proprio per quel sorriso che non l’abbandonava mai. Ilaria Alpi era una persona determinata, una «signora giornalista», una persona semplice e generosa. Ha tanto voluto quel viaggio, il settimo, l’ultimo. Con lei il 20 marzo 1994, a Mogadiscio, c’era l’operatore Miran Hrovatin di Videoest di Trieste.
Quello è stato il loro ultimo viaggio. Sono passati ventiquattro anni da quell’esecuzione avvenuta per le strade di Mogadiscio. Ventiquattro anni senza conoscere la verità, tra depistaggi, false dichiarazioni, ritrattazioni. Ci sono stati tre processi e una Commissione d’inchiesta parlamentare per tentare di dare un volto e un nome a chi ha voluto questo duplice omicidio. Due tesi opposte si sono fronteggiate in questi anni: quella della sparatoria conseguente a un maldestro tentativo di rapina, nel quale emerge la figura del capro espiatorio Hashi (il somalo arrestato e poi liberato dopo anni di carcere) contro quella, ben più consistente, di un attentato premeditato per bloccare le inchieste che Ilaria stava conducendo in terra somala su un coacervo di traffici illeciti di armi e rifiuti, scomode anche per l’Italia. “Ciao, Ibtisam” mette insieme i tasselli di un mosaico.
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